Ieri ho fatto una lista. L’ennesima.
Mi sono messa a contare tutte le case in cui ho abitato.
Cinque a San Donà di Piave.
Tre a Padova.
Tre a Parigi (una era un albergo nel quale ho soggiornato per la bellezza di due mesi…direi che conta come casa, no?)
Due a Barcellona.
Due a Berlino.
Due a Auckland.
Una (finora) a Milano.
Diciotto.
Facendo un rapido calcolo Usando la calcolatrice e dividendo la mia età (31) per il numero di case, ottengo 1,72 (col due periodico).
Un risultato che la mia immensa ignoranza matematica non sa bene come interpretare.
Vuol dire che ho vissuto in media un anno e sette mesi in ogni casa?
Il provvidenziale aiuto del paziente Alessio.
Dunque, dicevamo, ho vissuto meno di due anni in ogni casa.
Poco, vero? Posso ragionevolmente considerarmi una vagabonda?
Sono così avvezza ai traslochi da averne parlato profusamente anche in passato, usando queste parole (per chi volesse leggere tutto il post, ecco qui)
Ho cambiato casa nella città in cui sono nata, più di una volta. Poi sono andata all’università e per ben tre volte mi sono trascinata dietro il mio bagaglio da studentessa pieno di foto, libri fotocopiati e e soprammobili di dubbio gusto.
Ho vissuto a Parigi, Barcellona e Berlino e non mi sono mai accontentata di abitare una sola casa: non riuscivo a decidermi tra la rive gauche e la rive droite e, per provarle tutte e due, ho traslocato in taxi. In terra catalana, prima ho vissuto con Romeo, un gatto rosso la cui mamma era partita per il cammino di Santiago, e poi ho deciso di tentare l’avventura di un appartamento nel Barrio Gotico con otto coinquilini. Rimpiangendo il mio Romeo per tutto il resto del soggiorno.Nella capitale tedesca, non ho mai avuto dubbi su quale parte del muro scegliere (quella a est): dopo qualche mese nella casa di una studentessa di recitazione di Amburgo, ho deciso che ne volevo una da inventare da zero e, proprio quando avevo finito di pitturare la parete del mio salotto di un bel blu pavone, era già ora di prendere l’aereo e di volare dall’altra parte del mondo.
Sono abituata ai traslochi e me ne vanto. Mi piace entrare in un posto nuovo e farlo mio, certo, ma soprattutto mi piace scoprire le tracce lasciate dagli inquilini precedenti, mi piace immaginare la loro storia, mi piace trovare un segno sul parquet e inventarmene l’origine.Pensare che appoggiato su un mobile c’era un vaso pieno di margherite portate in dono da un ospite inatteso. Convincersi che la vernice scrostata sul balcone corrisponde ai gomiti della ragazza che ogni sera spiava nel buio il vicino di casa del quale era innamorata.
Quando entro in una casa, la esploro, ci faccio conoscenza e poi inizio a completare la sua anima, aggiungendoci minuscoli frammenti della mia vita. E quando infine la lascio, sono felice di aver contribuito e non smetto mai di chiedermi, con un misto di nostalgia e curiosità, chi starà guardando ora il Sacré Coeur dalla finestra e chi starà leggendo il suo libro preferito mentre da lontano riesce a scorgere le luci della torre della televisione di Berlino.
Ok. Questo è il momento in cui vi chiedete dove voglio arrivare.
Sì, avete ragione anche voi.
La vera domanda a cui rispondere è: perché ti sei messa a contare tutte queste case?
Presto detto: ieri ho iniziato a leggere l’ultimo libro del mio autore italiano preferito (sempre lui, non lo scrivo neanche più altrimenti sembro una stalker ossessionata. PAOLO COGNETTI) e, arrivata a pagina 31 (la mia età, tra l’altro, ma non c’entra niente), mi sono trovata di fronte a questo titolo.
STORIE DI CASE.
Lui dice di avere un debole per le case degli altri:
Una casa parla di chi la abita, è lei stessa una forma di scrittura. E per quanto mi riguarda è una fonte inesauribile di ispirazione.
E aggiunge:
Scrivere non è costruire una casa: è visitarla, abitarci dentro. La casa esiste già, ed è una casa piena di segreti: a noi tocca il lavoro di scrutare nell’armadio e sotto il letto, accendere le luci, sfondare le porte chiuse.
Insomma, dove voglio arrivare?
Non lo so bene.
So solo che queste parole mi hanno aperto la mente ed è da ieri che ci penso.
So che ho contato le mie case, che mi sono resa conto che sono abbastanza e che, anche se ovviamente la metafora dell’esplorazione come scrittura è -appunto- solo una metafora, ho pensato di avere tra le mani un bel capitale di ispirazione.
Tutto qua.
Sono abituata ai traslochi e me ne vanto, ho detto.
Ho esplorato e abitato tante case e sono fortunata, aggiungo.