Chi mi segue su Facebook, ormai lo sa già.
Qualche giorno fa, sono successe due cose meravigliose e forse è meglio che parta dal principio. Vi avviso…NON sarò breve.
La nostra storia inizia verso la fine degli anni ’80.
C’è una bambina curiosa e un po’ …rompiscatole (mi auto-censuro l’auto-offesa) che passeggia con i suoi genitori in uno sterminato parco sulla riva del fiume che attraversa la sua città.
[Ok, ok, il parco non è poi così grande, ma lei è una bambina e poi sto cercando di creare un po’ di ambientazione]
Quella bambina si ferma davanti a uno strano monumento: ci sono una foto di un bambino come lei e una strana poesia che non le lascia capire perché mai quella specie di lapide si trovi lì. I suoi genitori, allora, le raccontano brevemente che quel bambino è stato “portato via” da un uomo cattivo. Lei non si accontenta di questa spiegazione, indaga ancora, sente che c’è dell’altro. È pur sempre una grandissima…rompiscatole. Fa altre domande ma la storia non è mai completa.
Le dicono che non deve dare confidenza a chi non conosce. Lei si spaventa un pochino ma è comunque sempre molto attratta da quel monumento e ogni volta che ci passa davanti, rilegge avidamente la poesia e guarda l’altro bambino negli occhi, come se lui potesse spiegarle quello che gli altri non le hanno voluto raccontare nei dettagli.
Passano gli anni, circa venti, la bambina diventa grande e ancora più profondo si radica in lei lo spirito di rompiscatolaggine e curiosità.
Non se l’è mai messa via e forse, tra gli alberi di quel parco, ha fatto una promessa a quel bambino morto nel 1970.
“Mario”, così si chiama lui, “un giorno forse scriverò la tua storia”.
E lo fa davvero! La storia viene scritta e diventa un libro che si intitola “Non vedo l’ora che venga domenica”.
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Del mio libro ho parlato e parlato senza sosta. Vi ho raccontato delle mie indagini, delle mie ricerche negli archivi polverosi e del mio stupore di fronte agli schermi che proiettavano i microfilm con gli articoli degli anni ’70. S0 che, a un certo punto, non ne potevate più.
Il libro era stato stampato, la presentazione fatta, le copie terminate…e dopo un po’ ci si era tutti un po’ dimenticati di questa storia.
E me dispiaceva davvero tanto, soprattutto perché mi ero posta un grande obiettivo che non ero riuscita a portare a termine. Pensavo che scrivere materialmente il libro fosse sufficiente: pensavo che, magicamente, tutti si sarebbero ricordati di quel bambino del 1970, e che i genitori della mia città avrebbero raccontato la storia ai loro figli, come i miei genitori lo avevano fatto con me.
No. Non era sufficiente.
Ma com’è possibile, mi chiedevo, che il più grave caso di cronaca nera della città, un delitto che l’aveva traumatizzata e cambiata per sempre, una tragedia che aveva unito i cittadini e li aveva fatti diventare un muro compatto che da un lato proteggeva la città e la famiglia del piccolo e dall’altro si batteva per la punizione dei colpevoli…com’era possibile che tutto questo fosse stato dimenticato? Che si fosse dissolto nel tempo?
Il fatto che io, nella mia vita, non avessi mai sentito questa identità di cui vi parlavo, questa appartenenza alla città in cui ero nata…forse avrebbe dovuto darmi una risposta.
E poi c’era anche stato qualcuno che mi aveva detto che “certe cose vanno dimenticate”.
Eppure non me ne facevo una ragione.
E vi dirò di più: facevo bene.
Arriviamo all’inizio del 2014. E pensate che questa storia è cominciata quasi cinquant’anni fa.
Mi giunge voce che, in un gruppo Facebook dedicato a San Donà di Piave dove si parla di ricordi e aneddoti sulla città, viene fuori il discorso.
Vi ricordate di Mario Rorato?
Siamo partiti da questo e siamo arrivati a una commemorazione e a parlare di una seconda edizione del libro.
Tutto così velocemente che non riesco ancora a spiegarmi come sia successo.
In questi giorni, ho perso il conto dei “grazie” che ho detto. Ho perso ore di sonno perché sono rimasta sveglia tutta la notte a ricevere la radiocronaca in tempo reale di quello che stava succedendo al parco fluviale mentre qui in Nuova Zelanda era notte. Ho perso il conto delle mail, dei messaggi, e delle telefonate che ho ricevuto da persone che mi facevano i complimenti, che mi ringraziavano (io? E perché?) e che mi chiedevano una copia del libro…subito!
E sono felice perché avevo ragione a non mettermela via.
MAI METTERSELA VIA, MAI!
Quando ho scritto il mio libro, mi ci sono affacciata timidamente…Che cosa ne potevo sapere io, che nel 1970 neanche ero nata?
Infatti, ne sapevo ben poco. Ma è stato meglio perché ho imparato tante cose.
“È successa una cosa terribile, senza giustificazioni…” mi dicevo “…ma erano tutti assieme, uniti. Che peccato che adesso non sia più così”.
Erano bambini e ragazzi all’epoca e io li ho rivisti adulti nelle foto della commemorazione.
E li ringrazio, non solo perché si stanno facendo in quattro per far sì che il libro venga ristampato e che il monumento venga finalmente restaurato. Li ringrazio perché mi hanno fatto conoscere questa loro coesione e perché mi hanno permesso di raccontare una storia che, in fondo, apparteneva a loro.