Un mese e dieci giorni senza più dare notizie. Non era mai successo e mai più succederà (spero).
Ve lo prometto.
Che cos’ho fatto? Che cosa mi ha tenuta così impegnata da dimenticarmi di queste pagine?
Prima di tutto, ho attraversato il mondo…e non in senso figurato: dalla Nuova Zelanda all’Italia, con trentacinque ore di viaggio, sedicimila tappe e quattordicimila ore di attesa in vari aeroporti del Sud-Est asiatico e degli Emirati Arabi…diciamo che i primi dieci giorni di questo mese di silenzio sono serviti a riprendermi dal trauma.
Questa immensa traversata mi ha fatto scoprire che:
-riesco a dormire ovunque e in qualsiasi situazione (nella fattispecie, in aeroporto a Hong Kong con una comitiva urlante a due metri di distanza, distesa su tre sedili con il bracciolo in mezzo);
-se dico che spero di non capitare nelle vicinanze di una determinata persona (neonato che si dispera, ragazzetta posseduta dal demonio, signore di mezz’età con fissazioni ossessivo compulsive), quella determinata persona sarà seduta accanto a me e sicuramente cercherà di interagire;
-non devo mai guardare film strappalacrime in aereo altrimenti poi il paziente Alessio si vergogna perché tutti pensano che mi stia facendo piangere lui.
Arrivata in Italia, nella mia città natale, ho trascorso la maggior parte del mio tempo a:
-ingozzarmi di tutti quei cibi che in Nuova Zelanda non ero riuscita a trovare (e in particolare mi riferisco al radicchio trevigiano e agli gnocchi della nonna Leda):
-visitare i punti nevralgici di San Donà: pasticceria sotto casa, spaccio di Tezenis, cimitero, banchetto del mercato della Federica che vende i reggiseni. Le mie scorribande sandonatesi sono, da sempre, dedicate all’acquisto di biancheria intima e al culto dell’arte funeraria:
-riprendermi dal mal di fuso assassino che, per quasi un mese, mi ha fatto svegliare nel cuore della notte con un’insopprimibile voglia di verze ripiene.
Ed eccoci arrivati alla mia trasferta milanese.
Sì, mi sono trasferita a Milano.
Sì, ho abitato all’estero per sei anni.
Sì, sono sicura.
Sì, avevo davvero voglia di tornare in Italia e ingozzarmi di radicchio di Treviso.
No, non sto scherzando.
A Milano, in due settimane:
-ho trovato casa e traslocato. Chi mi conosce, sa che i miei traslochi non sono mai sereni e organizzati ma constano di valigioni enormi, crisi isteriche e tremende ed estenuanti sessioni di shopping all’Ikea (dove vado per comprare le pentole, mi dimentico le pentole e torno a casa con il kit per l’orto urbano. Pollice nero ci riprova);
-ho vissuto per quasi tre settimane senza internet e ho ottenuto la connessione solo in seguito a continue telefonate al tecnico, velate minacce e lusinghe (“Ah, non mi richiama? Adesso ci penso io! Non risponde! Vedi che non risponde? Adesso lascio suonare finché non risp…BUONGIORNO! Io sto aspettando internet. Eh sì. COME? DOMANI?! Lei adesso viene qui e non si muove di qui finché non abbiamo guardato assieme tutte le puntate della nuova serie di “Downton Abbey”);
-nelle tre settimane di attesa di internet, ho deciso di iniziare a visitare i bar del quartiere già dalle prime ore del mattino, cercando disperatamente l’adesivo “free wifi” sulle porte di osterie e locali notturni. Presa dall’ansia di connessione, ho infine chiesto la password a tutti i vicini di casa, sedendomi in vari punti del cortile con il computer sulle ginocchia a seconda del segnale.
Adesso, però, ci siamo: sto scrivendo dal mio salottino con una connessione MIA, ho un tappeto Ikea che fa venire il mal di mare ma è molto scenografico, le mie piante aromatiche non crescono (ma le ho piantate solo ieri mattina, dite che è presto?), mi sono rimessa in pari con Downton e ieri ho comprato l’ultimo libro di Paolo Cognetti.
L’altro giorno, ho addirittura portato le tende dal sarto perché erano troppo lunghe, ho contrattato sul prezzo (attenzione, questo per me è un vero sinonimo di maturità), ho comunque pagato il lavoro più del valore delle tende e, per il disappunto, sono tornata a casa e le ho stirate, drappeggiandomele infine addosso come un’antica romana e salutando la folla dal balcone.
Vado in giro in bicicletta sul marciapiede e mi faccio sgridare dal portinaio perché parcheggio nel cortile invece che nell’apposito posto delle biciclette.
Non ho perso l’abitudine neozelandese di salutare la gente per strada.
Importuno i vicini con la bieca intenzione di arrivare ai loro animali domestici.
Annuso con malcelata invidia il basilico della signora in parte e la saluto quando mi accorgo che mi spia dalla finestra.
Presto sentirete parlare della “squilibrata dei Navigli”.